Credo che veniamo al mondo attraverso il pianto perché la vita è il costante tentativo di trovare le parole giuste. Ma le parole sono giuste solo se qualcuno le raccoglie.
Il pianto di un bambino è il tentativo di gettare una sonda nel mistero del mondo che lo circonda. Esplora con le sue urla se il pianeta dove è nato, è abitato o no. Cerca qualcuno, e lo cerca con le sue proprie parole.
L'inferno è nessuno che risponde.
Sarà questo il motivo per cui il Padre non si limita a darci attenzione, ad accorgersi del nostro grido. Manda il Figlio Suo. Frantuma l'inferno perché risponde.
Il nostro pianto non è a vuoto, ma è a Qualcuno.
E da quel momento in poi l'inferno non è più nessuno che risponde, ma io che non voglio ascoltare più nessuna risposta.

 

                                                                                                        (Luigi Maria Epicoco)

La splendida pagina del Vangelo dell'annunciazione ricorda a tutti noi una verità importantissima: "nulla è impossibile a Dio". Il che non significa che Dio è uno che fa magie, ma uno che prolunga il nostro possibile. Le opere di Dio si poggiano sui nostri Eccomi. Egli si fa mendicante della nostra libertà, e attraverso di essa giunge lì dove le nostre forze da sole non potrebbero arrivare. Come un papà che prende in braccio il figlio e lo solleva affinché raccolga un frutto da un albero alto. Non servirebbe a nulla la mano spalancata di quel bambino se non ci fosse un papà che renda possibile qualcosa che per quel bambino da solo rimarrebbe inarrivabile. La storia di Maria è il prototipo di ogni vita vissuta con Dio. Il Suo Eccomi è una mano spalancata. L'Amore di Dio è un padre che ti solleva all'altezza di ciò che desideri veramente, affinché tu colga la gioia.

 

                                                                                                   (Luigi Maria Epicoco)

“Gesù, alzàti gli occhi, vide una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: ‘Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?’. Diceva così per metterlo alla prova”. Immagino il sorriso sornione di Gesù mentre il povero Filippo guarda a tutte quelle migliaia di persone e si toccava il portafoglio sapendo che non c’erano dentro abbastanza soldi per dare nemmeno un morso di pane a tutti. Ma l’esperienza di Filippo è la stessa esperienza che facciamo noi quando, davanti alla sproporzione delle cose che ci accadono, ci sentiamo rivolgere la stessa domanda: “E adesso dove troverai tutte le forze per affrontare questo?”. Pensando a queste esperienze credo che anche noi smettiamo di sorridere, perché la faccenda è seria. E solo un miracolo può salvarci. E il miracolo accade. “Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: ‘C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?’”. Uno deve avere almeno l’umiltà di sapere quel poco che ha. Se sappiamo fare solo l’elenco di ciò che ci manca rimaniamo schiacciati dal solo pensiero delle cose. Gesù moltiplica quei cinque pani e due pesci ma moltiplica non crea. Moltiplicare cinque è cosa diversa dal moltiplicare zero. Nessuno di noi ha zero. Ha qualcosa, che non sarà certamente abbastanza. Lo metta però con fiducia davanti al Signore ed Egli farà il resto.

 

(Luigi Maria Epicoco)

 

La storia dei discepoli di Emmaus è una di quelle storie che ha sempre il suo fascino. Forse perché tutti abbiamo conosciuto sentieri come il loro. Tornare a casa un po’ delusi è la triste esperienza che facciamo appena ci accorgiamo che la vita non è come ce la siamo immaginata. La vita è reale e contraddittoria allo stesso tempo. È pasqua anche quando ci si accorge che ciò che stai vivendo non è proprio la vita ideale, e che in mezzo a cose che fanno male e ti costringono alla ritirata si può incontrare il Risorto. Egli è Colui che ti fa ardere di nuovo il cuore quando pensavi che ormai non ci sarebbe stato più nulla per te. Egli è colui che ti spiega il “senso delle Scritture”, ovvero il significato nascosto negli eventi, ciò che ricollega te a un senso ultimo del vivere. I credenti non sono dei gioiosi spensierati tutti sorrisini e testa per aria. I credenti molto spesso sono persone che hanno ricevuto tante mazzate nella vita, e che il Signore è andato a raccoglierli proprio ai margini di dove si erano arenati. Ci sconvolge sempre sapere che Egli innanzitutto ci cammina accanto. Il cristianesimo non è una soluzione ma un cammino. E lungo questo cammino può accadere che ciò che tu pensavi fosse solo un viandante qualunque, invece era Gesù. Da lì comincia la testimonianza, quella vera, quella non teorica: “Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme”. Inizia così la missione.

 

                                                                                                             (Luigi Maria Epicoco)

 

2 novembre -

Commemorazione dei defunti

 

Oggi non è una giornata di lutto, ma è una giornata in cui ricordare nel senso stretto della parola, cioè riportare al cuore. Come cristiani siamo chiamati a riempire di gratitudine la nostra memoria. Per quanto ci manchino le persone a cui abbiamo voluto bene, dobbiamo avere il coraggio di saperci tenere la sofferenza da un lato perché dice che abbiamo amato, ma anche la gratitudine dall'altro, perché dice che ciò che si ama può esserci tolto, ma non per sempre. L’amore salva tutto. Tutto ciò che ami è salvo. Dio è amore e non ci ha dato la capacità d’amare per tormentarci con delle assenze, ma per ricordarci che il nostro fine ultimo, il nostro destino ultimo, è la pienezza dell’amore. L’amore può farci soffrire, perché chi ama si espone al dolore, ma nessuno baratterebbe il proprio dolore, perché è un territorio prezioso, perché è il legame con chi amiamo. Se si vuole smettere di soffrire bisogna smettere di amare. Oggi è un giorno per saper dire grazie per nonni, genitori, fratelli, figli, amici che ci hanno sorpassato con la morte, ma verso cui siamo incamminati. Oggi è un buongiorno per liberare i nostri fratelli defunti dalla depressione e tristezza in cui siamo caduti a causa della loro assenza. Se amate qualcuno che non c’è più, lasciatelo andare via, non trasformatelo nel motivo della vostra disperazione. Questo sarebbe un bel suffragio per i nostri defunti, un suffragio anche per noi.

 

                                                                                                              (Luigi Maria Epicoco)

"Non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito". E’ il vangelo che ci presta quotidianamente le parole che usiamo di consueto nella liturgia proprio ad un passo dalla comunione. Ma in realtà non ci accorgiamo quasi mai di quanta fede ci sia in questa espressione così semplice e così autentica di quest’uomo. Il centurione romano dice a Gesù che si fida così tanto di Lui da non avere bisogno di altri segni, o di altre prove concrete se non semplicemente la Sua semplice parola. Per lui basta solo la parola di Gesù a cambiare le carte in tavola senza bisogno di fuochi d’artificio, prove, controprove. Mentre noi abbiamo invece continuamente bisogno di segni, di prove, di gesti, di rassicurazioni forse perché non ci fidiamo veramente di Lui. Cerchiamo così l’effetto esteriore perché non crediamo che Lui sia così capace di cambiare la sostanza delle cose. La parola d'ordine di oggi invece è ‘fidarsi’ della Parola senza domandare altri ‘segni’. Il segno più bello è quello della fiducia. È poter pregare con la certezza di essere già stati ascoltati. È affidarsi nella consapevolezza che se Dio dice di amarci non può mai agire conto l’amore perché agirebbe contro se stesso. La fede è saper credere a questo amore e non all’evidenza degli eventi nella loro superficie. Un bambino non teorizza troppo sui pericoli se è in braccio alla madre o al padre. Vive nell’interiore certezza che è la presenza di quella persona il motivo di sapersi al sicuro sempre e comunque. Per lui vale di più la rassicurazione di quella persona che il pericolo incombente. La fede è un dono, ma dare fiducia è una scelta. La fede è come avere un padre che ti prende in braccio, ma la fiducia è scegliere di credere più a quelle braccia che a tutto il resto che grida il contrario. “Signore non merito nulla, ma mi basta la Tua parola per sapermi salvo, perché tu mi hai insegnato che l’amore è dono gratuito e io credo alla gratuità del tuo amore senza altri segni”.

 

                                                                                                  (Luigi Maria Epicoco)

“Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita?”. È con questa domanda che Gesù inizia il racconto del vangelo. Ma la risposta non è scontatamente si, ma bensì esattamente il contrario, cioè no. È buon senso non mettere a rischio l’incolumità dell’intero gregge per andare a cercare una sola pecora. Anzi forse le starà anche bene essersi perduta e pagare per questo suo allontanamento. La nostra è la logica del mondo, la logica di una giustizia tutta matematica e ovvietà. Ma Dio non ragiona in termini di buon senso. L’amore non è buon senso. Dio ci ama con un amore folle, un amore che dice che ognuno di noi vale tutto. Ai suoi occhi vale sempre la pena rischiare tutto se in ballo ci sono io. L’amore di Dio è un amore spericolato, un amore ostinato, un amore che non rimane fermo. L’amore di Dio non è un amore stabile, ma dinamico. Non è un amore equilibrato, ma completamente sbilanciato verso di noi. È per tutti questi motivi che Gesù per noi è salvezza. Perché Gesù è il modo che il Padre ha di venirci a cercare mettendo a repentaglio tutto, persino la Sua stessa vita. E per quale motivo lo fa? “E’ volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”. Se Gesù viene nel mondo è perché ci sta cercando. La sua non è una scampagnata nello spazio e nel tempo, ma la ferma volontà di venirci a prendere lì dove siamo andati a finire. “Se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”. Non siamo figli di divinità pagane completamente disinteressate del nostro destino. Dio in Gesù ha mescolato il suo destino con il nostro. Amare qualcuno significa lasciare che la gioia o il dolore che riguarda chi ami sia anche la tua. Dio ha fatto così con noi. Con Gesù ha legato il destino dell’uomo al Suo. Dovremmo quasi dire che Gesù è il nostro vero destino. Ma non dimentichiamo che rimaniamo liberi. Liberi di non lasciarci trovare.

                                                                                                                                    (Luigi Maria Epicoco)

“Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Mi piacerebbe che rileggessimo più e più volte queste parole del Vangelo di oggi. Le lasciassimo così scendere fin nel profondo del nostro cuore. A me creano sempre una profonda commozione. Sapermi amato a tal punto da sapere che Dio ha chiesto al proprio Figlio di sacrificarsi per me non mi lascia indifferente. La fede non è tanto credere delle cose su Dio, ma credere di più in noi stessi accettando di essere amati così per davvero. Ci svalutiamo troppo. Crediamo di più alla nostra tenebra che alla luce con cui siamo guardati: “ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie”. Ai nostri occhi è più credibile il bicchiere mezzo vuoto. Ci guardiamo quasi sempre con giudizio, con sensi di colpa e non riusciamo a cogliere invece lo sguardo che Dio ha su di noi. Uno sguardo che dice: “Tu vali! Vali a tal punto che sono morto per te”. Non ci dice questo per far nascere in noi gratitudini o sensi di colpa. Dio non ha bisogno dei nostri grazie, o delle nostre frustrazioni. Egli ha bisogno della nostra felicità. L’unica cosa che davvero dà gloria a Dio è essere felici. Perché l’unica cosa che appaga uno che ama è sapere che chi sta amando è felice. Per quella felicità darebbe via anche se stesso. E Dio lo ha fatto veramente. La memoria di questo crea dentro di noi una irresistibile gratitudine che la teologia chiama “eucarestia”. Tutte le volte che celebriamo l’eucarestia dovremmo celebrare questo mistero di gratitudine. Il mistero della Sua passione, morte e resurrezione è un mistero di amore non di mero sacrificio. E’ il mistero che ci ricorda che valiamo più dei nostri peccati, più delle circostanze difficili, più dei problemi che dobbiamo vivere, più delle situazioni che ci tocca affrontare. Valiamo non perché ciò è evidente, ma perché il Suo amore lo rende evidente. Dovremmo sempre vivere di conseguenza a tutto questo.

 

(Luigi Maria Epicoco)

“Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?”. Moriamo un po’ tutti dalla voglia di fare a Gesù questa stessa domanda che troviamo nel Vangelo di oggi. “Come vuoi convincerci? Come facciamo a sapere che è tutto vero? Stupiscici!”. E Gesù non si offende davanti a questa richiesta, sa bene che noi abbiamo bisogno anche di toccare, di vedere, di capire. Abbiamo bisogno di verificare, di fare esperienza. Ma invece che uscirsene con un effetto speciale, Gesù fa qualcosa di sconvolgente, di più grande, di più impensabile: pone sé stesso come segno, come dono, come prova che quello che dice è vero. Non regala manna discesa dal cielo, ma rende sé stesso un pane spezzato per tutti: “«In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».(…) «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»”. Il dono dell’Eucarestia è il tesoro più prezioso che il mondo ha, perché è la presenza reale di un Dio infinito e innamorato di noi, dentro la fragilità di un pezzo di pane. E questa scelta è fatta appositamente per lasciarci liberi, liberi di crederci o liberi di non crederci. Tu vedi pane ma sai che in sostanza c’è tutto Lui. Tu vedi pane ma quello è “il Tutto nel frammento”. Tu vedi pane silenzioso, ma quella è la Presenza più eloquente dell’Amore più grande, quello che dà tutto sé stesso. Tu vedi pane ma la tua fede sa che è tutto infinitamente di più. Così ciò che è quotidiano, come un pezzo di pane, diventa segno di ciò che è straordinario, e lo fa senza fuochi d’artificio, ma nell'umiltà più totale, come accade ugualmente la notte che venne al mondo nella sperduta periferia della Giudea. Sono gli occhi che devono cambiare, non le cose. Sono gli occhi che devono saper vedere il di più che il cuore cerca. Ma questo è dono.

 

(Luigi Maria Epicoco)

“Signore, il mio servo giace in casa paralitico e soffre moltissimo”. La prima grande lezione del vangelo di oggi ci viene da questa iniziale parola pronunciata dal centurione romano. Paradossalmente egli non chiede, ma racconta a Gesù quello che sta vivendo, e consegna a Gesù la sofferenza di questo suo servo, che a quanto pare gli deve stare particolarmente a cuore se si mette a cercare una soluzione. Quante cose ci stanno a cuore? Quante cose viviamo nelle nostre giornate?... Dovremmo imparare a raccontare a Gesù tutto. A raccontare a Gesù la nostra sofferenza o la sofferenza che incontriamo sul nostro cammino, specie nel volto dei fratelli che incrociamo. La preghiera è innanzitutto questa consegna delle cose. Prima ancora di essere una richiesta è una sorta di affidamento. Poter dire a qualcuno ciò che sto vivendo è già un immenso miracolo. Gesù non solo ascolta ma previene anche la preghiera implicita nascosta in quel racconto: "Gesù gli disse: «Io verrò e lo guarirò»". Ma è proprio a questo punto che la scena stupisce ancora di più perché il centurione romano mostra una fede immensa, più grande anche di quello che Gesù sta per fare recandosi a casa sua: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”. Che è un po’ come dire: “Signore io mi fido talmente tanto di te che sono certo che tu farai qualcosa per lui anche senza che io lo veda o che me ne accorga mai. Io mi fido di te al punto che non importa che veda io come farai, ma sono certo che ciò che è giusto per lui lo farai”. Gesù è colpito dalla fede di quest’uomo, che tra l’altro non fa parte proprio di una cerchia di credenti, ma bensì del gruppo degli oppressori di Israele. “Gesù, udito questo, ne restò meravigliato, e disse a quelli che lo seguivano: «Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande!»”. Infatti è grande la fede di chi prega senza cercare segni, ma con l’intima certezza che Chi ci ama non può non ascoltarci e fare ciò che è giusto. (Mt 8,5-11)

 

(Luigi Maria Epicoco)

 

 

Eccolo, arriva, il Natale.

Nessuno ci vieterà di accoglierlo, questo Cristo di Dio. Nessuno ci vieterà di farci grotta. Nessuno ci impedirà, infine, di fare di questo tempo un tempo di cambiamento, di conversione, finanche di rinascita. questo ci è dato. Questo possiamo fare.

E noi qui a chiederci se lo vogliamo ancora, un Dio così. se abbiamo ancora voglia di metterci in gioco, di svegliarci, di stupirci e di stupire.

Dio continua a nascere, a venire, a provocarci, a chiedere ospitalità e accoglienza.

Basta che non facciamo il madornale errore di prenderci noi per Dio.

Viene, ancora, bussa alle porte del nostro cuore. Irrompe nel quotidiano, così come siamo, in mezzo a questo mondo che pare frammentarsi ed implodere, in questa Chiesa così tenace e compassionevole nonostante i nostri evidenti limiti.

Eccolo, arriva. Dio nasce. Rinasce in ciascuno di noi. Siamo pronti ad accoglierlo? Datemi retta: seguite Maria.

 

Un angelo

Maria è stata sfiorata da Dio.

Non sappiamo come. Sappiamo che ha avuto la certezza di una teofania, dell’irruzione di Dio nella sua vita. Non è stata un’illusione, ma una reale percezione nell'intimo, una profonda esperienza interiore. No, non fatico a credere che Dio si manifesti nell'anima di chi lo cerca. Che Dio sia altro dalle nostre convinzioni e non credo affatto che la fede sia un sentimento religioso, ma un incontro reale. Talmente reale da spaventare. Maria, in quel saluto, capisce che deve rallegrarsi perché Dio l’ha riempita di grazia, perché il Signore è con lei.

Il saluto dell’angelo è un invito alla gioia. Una gioia preventiva, a prescindere.

La gioia del cristiano. La gioia del sapersi in compagnia di Dio.

È piena di grazia perché Dio precede e suscita la nostra conversione, accompagna la nostra ricerca, orienta le nostre decisioni.

Anche noi siamo pieni di grazia. Anche noi siamo riempiti, se prima abbiamo il coraggio di svuotarci. Anche noi diventiamo capaci di Dio. Contenitori dell’Assoluto.

 

Turbamenti

Maria è turbata. Ci mancherebbe.

Come non essere travolti e stravolti dalla improvvisa visita di Dio? Come non cedere davanti al soffio di Dio? Alla bellezza dell’Altissimo? Come non provare un brivido quando ci rendiamo conto che Dio è, ed è presente, ed è bellissimo?

E che ci visita? Maria è turbata, scossa. Dio è ed è lì.

L’angelo invita Maria a non spaventarsi. E aggiunge: sarai madre. Ah, solo!

Il tuo sarà un grande figlio e sarà chiamato figlio dell’Altissimo. Ma dai?

Regnerà sul trono di Davide. Parliamo del Messia, vero?

Gli angeli dovrebbe fare qualche corso sulla comunicazione.

E almeno qualche lezione di psicologia umana, almeno le basi…

Dio irrompe nella vita di Maria per renderla feconda, per fare grandi cose attraverso di lei.

Suo figlio sarà grande, come ogni figlio!, ma sarà anche fonte di benedizione per molti. Dio viene sempre per compiere grandi cose in noi per gli altri. Anche in me.

Maria, come ogni figlia di Israele, sa che la gente aspetta un liberatore, un nuovo re Davide che restituirà coraggio e gloria al popolo scelto da Dio.

Ora sta succedendo, finalmente.

Ma come?

 

Concretezze

Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo?». (Lc 1,34)

Sono le prime parole di Maria.

E sono come un treno in corsa.

Fino a qui l’abbiamo immaginata intimorita, un’adolescente sussiegosa che ascolta il roboante annuncio del principe degli angeli. Macché, non è affatto così.

Maria non è timida, né impacciata.

Mette i brividi vedere come tiene testa a Gabriele, come interagisce con determinazione e lucidità. Le sue prime parole – una richiesta di chiarimento – svelano una donna adulta, una credente intelligente e posata, una persona concreta e con i piedi ben piantati per terra.

Guardatela la ragazzina che interroga l’attonito principe degli angeli!

Siate fiere, figlie di Eva, per tanta forza, tanta grazia, tanta audacia!

Imparate, figli di Adamo, da tanta concretezza e determinazione!

L’adolescente che osa, che controbatte, che chiede.

Eppure è così che dobbiamo fare. È questo l’atteggiamento che deve assumere il credente.

Il Dio che si racconta nella Bibbia, quello definitivamente svelato in Gesù è un Dio che non tratta gli uomini come servi (Gv 15,15), ma come figli, che li pone alla pari (Sal 8,5-6), che accetta di farsi mettere in discussione (Gen 18).

 

Spiegazioni

L’angelo spiega, interviene, non se l’aspettava un’obiezione così sensata, così opportuna.

Dio entra nel suo grembo, l’infinito si contrae nel suo seno acerbo e lei chiede: come è possibile se non ha avuto rapporti coniugali con Giuseppe?

Cala il silenzio. Tutto si ferma. Tutto è immobile.

Dio aspetta una risposta.

È giovane, Maria, certo, ma non sprovveduta.

Cosa sarebbe successo il giorno dopo? Con Giuseppe? Con Anna, sua madre?

Chi le avrebbe creduto? Lei stessa, come avrebbe potuto ripensare a quel momento senza farsi travolgere dai dubbi? Senza credersi esaurita?

Voi cosa avreste risposto?

Il silenzio si interrompe. Maria ha scelto.

Sa che la sua vita non è sua, che è dono e ne fa dono.

Una risposta diretta, precisa, la sua, una disponibilità ragionata che rivela lo spessore dell’anima dell’adolescente. Ci si prepara, alle grandi scelte, giorno per giorno, e lei è pronta. Da tempo ha fatto della sua vita un servizio a Dio. Sa che siamo tutti servi gli uni della felicità degli altri. Sa che la vita o si dona o sfiorisce. Sa.

Se stasera sono qui a scrivere, a riprendere in mano questa pagina, se, fra poco, prenderò un salmo per affidare la mia giornata a Dio, se ho accolto la fede, se ho un orizzonte di speranza, se credo, con fatica ma tenacia, dopo tanti anni, se vivrò comunque questo Natale come grazia, è grazie a quel “sì”.  Il sì  pronunciato da un’adolescente in un buco di paese sperduto nel nulla.

Sono qui grazie a quel sì.

E inizia la salvezza.

 

(Paolo Curtaz)

 

Natale sei tu

 

Accadde che

Una giovane coppia giunge a Betlemme, la città che ha visto nascere il re Davide.

È un censimento ad averli portati laggiù, forse un censimento regionale, un modo che, da sempre, i potenti hanno di manifestare la loro autorità per imporre i tributi.

La donna aspetta il suo primogenito e viene accolta in casa di qualche parente (inimmaginabile che fossero rifiutati con il senso sacro dell’ospitalità nel mondo orientale!), ma per tutelare il suo pudore partorisce nel retro della casa, normalmente costituita da un unico vano, là dove si custodivano gli animali di piccola taglia e le derrate alimentari, la cassaforte di ogni abitazione.

La scena si sposta all'esterno, da un gruppo di pastori che passano le giornate e le notti, da marzo ad ottobre, nei brulli pascoli della Giudea. Non i pastorelli dei nostri presepi, ma persone poco raccomandabili indurite dal lavoro, che rabbini del tempo paragonano ai pubblicani, considerati bugiardi (non potevano testimoniare ad un processo) e inaffidabili.

Loro ricevono l’annuncio: gli sconfitti, i perdenti, i condannati.

Non i sacerdoti di Gerusalemme, tutti presi dal funzionamento del ricostruito tempio per aspettare davvero un messia inopportuno.

Non Erode, che ha ottenuto il trono con determinazione e ferocia, e che vede nel Messia un pericoloso concorrente.

Non la brava gente di Gerusalemme, tutta presa dalla quotidianità.

 

Accessibilità

La ragazza partorisce, lava il bambino, lo avvolge nelle fasce, lo depone nella mangiatoia.

Nessuna lucina misteriosa, nessun prodigio, nessun effetto speciale.

Dio nasce come ogni bambino, la salvezza ci giunge nel più banale dei modi.

E i pastori cercheranno una mangiatoia per riconoscere il Messia. E gli astronomi una stella.

Dio si fa incontrare là dove siamo, parla ai nostri cuori con il linguaggio che conosciamo.

È il nostro sguardo che cambia, è la luce del nostro cuore che sa vedere al di là dell’apparenza.

Ecco il nostro Dio: è un neonato con i pugni chiusi e la pelle arrossata, gli occhi che mal sopportano la luce e la piccola bocca che cerca l’acerbo seno della madre.

È un bambino impotente, fragile, che va lavato e scaldato, cambiato e baciato, ed è tenuto a contatto della pelle ruvida del padre, Giuseppe, che lascia l’emozione inumidirgli gli occhi per poi tornare alla concretezza di una situazione problematica.

Non dona, chiede, non ha deliri di onnipotenza, ha svestito i panni della regalità, li ha deposti ai piedi della nostra inquieta umanità. Non gli angeli, ma una ragazza inesperta e generosa si occupa di lui.

Vorrei un Dio che mi risolvesse i problemi, non un Dio che me li crea.

Vorrei un Dio potente e forte, non un neonato bisognoso di tutto.

Vorrei un Dio più efficiente, non perdente. Schierato con i forti, non difensore dei deboli.

Vorrei qualche effetto speciale, così, per convincermi.

E invece.

 

Luce e ombra

È che spaventa quel neonato. Irrita. Disturba.

Ci inquieta anche solo immaginare che Dio, davvero!, abbia deposto il suo abito di eternità per rivestire quello lacero e sporco dell’umanità. Se preso sul serio, il Natale ci mette in crisi.

Ci interroga.

Dio che si fa accessibile, incontrabile, neonato fragile e indifeso, demolisce i nostri infiniti pregiudizi su Dio.

Dio è lontano. Dio si disinteressa di noi. Dio è misterioso e cupo, lunatico e incomprensibile.

Dio vede e non interviene, lascia morire di fame i bambini.

Dio non ferma le guerre e i terroristi. Dio fa morire di cancro la giovane mamma e tiene in vita l’omicida spietato.

Un Dio pasticcione e inquietante. Anche quello dei cattolici che credono senza mai porsi una domanda, senza un fremito, senza un sussulto, senza una domanda. Credono come le pietre, non saldi, ma freddi e inanimati.

Cos'ha a che vedere, questo neonato che si allatta all'acerbo seno di un’adolescente, con l’orribile idea di Dio che portiamo nel cuore?

Eppure Dio è diventato uomo esattamente per cambiare la nostra vita. Per svelarci chi è lui. Perché vedendo lui, capiamo chi siamo noi. Chi sono io.

Impasto di fango plasmato ad immagine di Dio. E riempito d’anima.

 

Eppure

Dio è diventato uomo esattamente per cambiare la nostra vita. Per svelarci chi è lui. Perché vedendo lui, capiamo chi siamo noi. Chi sono io.

Impasto di fango plasmato ad immagine di Dio. E riempito d’anima.

Dio diventa uomo per salvarci dai peccati, come hanno scritto i padri della Chiesa latina.

Dio diventa uomo perché l’uomo diventi come Dio, come hanno scritto i padri della Chiesa d’Oriente.

Dio diventa uomo, aggiungo, perché, l’uomo, finalmente, impari a diventare uomo.

Dov'è Dio?, mi chiedono in tanti, inseguiti dalla loro paura.

Sorrido, in questa notte, mentre prego davanti al mio piccolo presepe.

Eccolo, Dio.

Nello sguardo impaurito di chi, solo, affronta la malattia.

Nella mano guantata del medico e dell’infermiere che accudiscono, incoraggiano.

Nella forza di chi non molla, di chi incoraggia, di chi mette da parte vittimismo e lamentazioni.

Eccolo. A te di accoglierlo se vuoi, qui, adesso, in questo anno sanguinante.

Anche se il nostro cuore è pensate e vuoto, come una grotta, come una stalla. Come quella stalla.

Ed è proprio lì che Dio chiede di nascere.

 

Nessuno ti porta via il Natale. Nessuno te lo ruba, stai tranquillo.

Se ancora osi credere, se ancora ti stupisci davanti a quel neonato che racchiude l’Infinito, se ancora ti commuovi davanti al Dio disarmato, lo rendo vivo e presente.

Sei tu il Natale di Dio. Tu la custodia di Dio. Il suo tabernacolo.

Buon Natale, allora.

 

Vi voglio bene di quel bene che Dio mi vuole.

 

(Paolo Curtaz)